lunedì 26 maggio 2014

Mononoke Hime (ri)visto per la prima volta. Un commento e una recensione



Se avete letto il mio precedente post saprete certamente quanto il film Mononoke Hime sia, per Miyazaki Hayao, il coronamento di un lungo percorso personale ed artistico. Si tratta del suo vero, epocale colossal, un’opera dalla gestazione complessa che ha richiesto immensi sforzi economici e produttivi per essere portata a compimento (se non ci credete, date subito un’occhiata al lungo documentario making of qui). Sforzi poi del tutto ripagati, perché il film ottiene in Giappone un riscontro strepitoso di pubblico ed è battuto al box office soltanto dalla mega produzione statunitense Titanic. Da quell’anno, il 1997, il cammino dello Studio Ghibli sarà costellato di record. Per questo e per molto altro, Mononoke Hime è un’opera di grandissima rilevanza, e no si può dire di apprezzare fino in fondo il suo regista senza averla vista e compresa a fondo.

Dall’8 al 15 maggio scorsi, il film è uscito nelle sale italiane e non ho certo perso l’occasione di vederlo. Spero che anche voi l’abbiate fatto, ma se così non fosse spero non vi lascerete almeno scappare l’uscita in home video.

Certo, tutti sanno che in Italia il film aveva già fatto il suo debutto cinematografico nell’anno 2000, sulla scorta degli ottimi risultati ottenuti in America, grazie alla Buena Vista International (divisione della Walt Disney Company), allora detentrice dei diritti distributivi sul mercato nostrano. Io stesso non feci in tempo a vederlo nei cinema ma presi in affitto il DVD non appena possibile: lo ricordo come fosse oggi, il giorno del mio diciottesimo compleanno. Quelle immagini mi sedussero in modo avvolgente e accattivante, era il primo film dello Studio che vedevo, e fui rapito dal quel modo del tutto diverso di concepire il disegno e l’animazione: la ricchezza dei dettagli, la fluidità dei movimenti, il montaggio così espressivo e la meravigliosa colonna sonora. Però, già in quelle prime visioni, e poi nelle successive quando acquistai quel DVD oggi ormai introvabile, capii che nel racconto qualcosa non tornava, che c’erano troppe contraddizioni. Erano gli albori del web, almeno per me che avevo da poco ottenuto la lentissima connessione 56k. Così iniziati a documentarmi e compresi che l’adattamento italiano aveva stravolto tutto.L’intera trama, i ruoli e i passaggi fondamentali, ogni cosa era stata normalizzata, appiattita, semplificata per un pubblico che si riteneva evidentemente incapace di cogliere i riferimenti e le allusioni di un prodotto complesso e lontano dalla nostra cultura. Ma non era solo questo: il finale in particolare era stato modificato mettendo in bocca ai personaggi nuove battute, per renderlo quello che non era e non doveva essere: un happy ending. Così nella versione italiana, la frase di chiusura del film pronunciata dal bonzo Jiko recitava: “A quanto pare la natura, stavolta, ha avuto la meglio”, quando in originale risultava, parafrasando, “non si possono battere gli stupidi”. Le modifiche al finale sono soltanto la punta dell’iceberg. Da quel momento ho preferito rivedere il film con i sottotitoli del doppiaggio inglese (a cui ha lavorato anche lo scrittore Neil Gaiman), certamente più aderenti all’originale.

La versione odierna è quanto di più fedele si sia potuto ottenere. L’adattamento e la direzione del doppiaggio sono stati curati da Gualtiero Cannarsi, già responsabile di quelli dei precedenti film dello Studio (tra i quali Il castello errante di Howl, I raccconti di Terramare, Il mio Vicino Totoro, Arrietty). Per la fortuna di noi appassionati, Cannarsi concede sempre interviste sul proprio metodo di lavoro e dialoga approfonditamente con i fan nel forum non ufficiale italiano dello Studio. È sua tradizione anticipare i doppiaggi con dei post su quel forum che sono dei veri e propri diari di lavorazione (qui trovate l’ultimo su Mononoke Hime). Già a una prima lettura si nota l’attento, minuzioso lavoro di studio e ricerca delle fonti, di penetrazione del testo e volontà di trasporlo per quanto e più possibile nella nostra lingua. È una mediazione mirabile, che permette a tutti di godere quasi trasparentemente il film, senza alcuna alterazione se non quella, impossibile da evitare, dell’atto di tradimento che è la traduzione stessa. Non mi stanco mai di ripetere a tutti quanto noi fan italiani dobbiamo ritenerci fortunati e privilegiati. In quale altre occasioni vi è capitato di poter rivedere distribuito nelle sale un film comunque “di nicchia”, e per di più completamente riadattato nel modo più fedele possibile all’originale?

Partendo da queste premesse, sono entrato nella sala buia e ho visto Mononoke Hime per la prima volta, con pupille non offuscate (come recita una delle frasi chiave del film). Anche ora a mente fredda, ritengo sia stata una delle esperienze cinematografiche più intense che abbia mai vissuto. Abituato e assuefatto com'ero all'altra sciagurata edizione, tutto in quel momento aveva il sapore di una rivelazione. Tutto combaciava, e quelle belle immagini prima prive di senso adesso ne traboccavano, fin nei minimi particolari.



Di qui parte la mia recensione:

Ambientato nel Giappone di un’epoca Muromachi condita di elementi fantasiosi, il film racconta le gesta dell’eroe Ashitaka, membro dell’antica e leggendaria tribù degli Emishi, costretto ad abbandonare per sempre il suo villaggio poiché macchiato dalla maledizione di un dio cinghiale, trasformato in un demone. Ad aver scatenato la metamorfosi della creatura è una pallottola di ferro proveniente da un luogo remoto. L’eroe intraprende quindi un lungo viaggio per scoprire, senza pregiudizi, chi abbia costruito un’arma capace di ferire e corrompere quella divinità e lui stesso, condannando entrambi a morte certa. Ashitaka raggiunge un territorio sconvolto da un conflitto insanabile: da un lato la comunità di donne della fornace, comandata dalla ferrea madama Eboshi, insediatasi in una regione vergine per estrarvi il ferro e fonderlo, costruendo utensili e armi; dall’altro le divinità e gli animali della foresta, che lottano contro il disboscamento messo in atto per l’estrazione del metallo, capeggiate dalla dea cane Moro e da sua figlia, San, un’umana allevata dalle belve.

Un affresco di pungente modernità, che descrive il rapporto sproporzionato dell’uomo con il resto dell’ecosistema, e che tuttavia sottolinea la tragica e naturale necessità umana di esistere e vivere a spese di altra vita. Eboshi e le sue donne fanno quanto ritengo necessario per sopravvivere in un mondo di continue violenze e soprusi, ma la loro stessa presenza nella foresta è a sua volta un sopruso per le creature che vi risiedono. Ho trovato molto interessante il modo in cui Miyazaki visualizza la maledizione, il male, facendola apparire come una malattia, una macchia della pelle che lentamente ma inesorabilmente mangia l’intero corpo. Non è più soltanto il MarMarcio di Nausicaa della Valle del vento: la corruzione è un fatto interno ed interiore, e fa parte della vita. Non esiste un mondo immacolato come non può esistere un corpo immacolato, e la stessa Eboshi lo sa bene: oltre alla donne ha preso a lavorare con sé i peggiori reietti, i lebbrosi, cui nessuno osa avvicinarsi.

Ashitaka non può quindi giudicare né propendere per una delle due parti. Egli guida lo spettatore in un mondo disperato e senza soluzione, dove la guerra è inevitabile. Però, in mezzo al conflitto, trova una ragione per continuare a lottare quando incontra la principessa spettro. Si innamora di San dal primo istante in cui posa gli occhi su di lei. La ragazzina vive in bilico tra due mondi: rifiuta la sua natura umana e abbraccia senza esitare la sua famiglia di adozione, i cani selvatici. La sua madre putativa, Moro, è accecata dall’odio per Eboshi, e come tutte le altre creature del bosco, è pronta a morire trascinando sua figlia con sé. Questo, Ashitaka non può accettarlo, sente che San ha bisogno di essere amata e protetta, e che non può sprecare la sua vita in un insensato martirio.

La principessa spettro tuttavia rifiuta inizialmente il suo amore, perché non lo comprende e non lo accetta. Lo trova sciocco e inutile, ma poi infine capisce che è un dono gratuito per cui vale la pena vivere. “Vivi!” le sussurra il ragazzo in una delle scene più drammatiche del film, vuole dirle di non sprecare inutilmente la sua vita, di condividerla con lui. Questo è l’unico valore possibile in un mondo sconquassato dalle guerre e dalle contraddizioni. All’inizio l’eroe è convinto di poter trovare una mediazione tra queste realtà in lotta, ma alla fine comprende come sia impossibile tentare una conciliazione tra due forze uguali ed opposte. Il contrasto è talmente acceso che dovrà perfino rinunciare all’amore per San, la quale non potrà mai perdonare la propria specie, gli umani e vivere con loro. Ma ad Ashitaka starà bene anche così, gli basterà sapere che San vive.

Le battute dei personaggi principali sono tutte di una spaventosa incisività, Miyazaki mette in scene un vero e proprio dramma dei tempi remoti, una tragedia shakespeariana. Non sono un profondo conoscitore del cinema giapponese ma credo che il riferimento al bardo inglese sia legato a doppio filo ai film di Kurosawa Akira direttamente ispirati a quelle tragedie, come Il trono di sangue e Ran. Madama Eboshi, nei suoi modi perentori e cinici, si rifà a Lady Macbeth. È un personaggio davvero affascinante, una donna onorevole e risoluta, ma anche colma di odio e solitudine, arroccata in un ruolo di comando che non le permette nessun vezzo o debolezza. Moro è il suo contraltare ferino, ma si tratta di due matrone davvero molto simili, che si guardano da opposte barricate. Il Dio Bestia, principale protettore del bosco, credo rappresenti l’infinita danza di vita e morte (giorno e notte; misericordia e crudeltà; dare e togliere), non è più il poetico cervo che tutti credevano fosse, a causa del vecchio "maltradattemento". E' la natura magnifica e pericolosa delle cose. È la morte che ha bisogno della vita e la vita che ha bisogno della morte. C’è poi l’opportunista Jiko, tutt’altro che un personaggio negativo. Anche lui ha i propri scopi utilitaristici e non vede di buon grado gli ideali di Eboshi, così come quelli di Ashitaka.

In questo complesso impianto teatrale Miyazaki non si nega grandi scene di massa, esplosioni e serratissime sequenze di azione tecnicamente formidabili. I riferimenti al suo Nausicaa della Valle del vento sono pure moltissimi: l’arrivo iniziale del Dio Cinghiale infuriato ricorda l’analoga prima sequenza con la corsa dell’Ohmu rabbioso; quando poi Ashitaka viene a sua volta colto dall’ira e i suoi capelli si sollevano, sembra di vedere la stessa Nausicaa scagliarsi contro i soldati nemici; o ancora, quando Ashitaka si frappone tra le lame di Eboshi e San pare di rivedere una simile scena in cui a farlo è Yupa; il gigantesco Dio Bestia, nella sua versione notturna (chiamata Deidarabocchi) assomiglia invece al Soldato Titano di Nausicaa; la stessa marcia finale degli Ohmu è speculare a quella disperata dei cinghiali in Mononoke Hime. I riferimenti sono davvero moltissimi, a riprova del legame profondo tra questa e quella storia.

Vorrei ancora dire altro sul film. Circa la componente grafica ed estetica, quest'opera è forse il picco massimo raggiunto dallo Studio in termini di attenzione per i particolari e numero di tavole/disegni. I fondali non sono soltanto minuziosamente pittorici, ma in più occasioni talmente ampi da permettere lunghissime carrellate orizzontali e verticali, davvero rare nel cinema d’animazione. La profusione di dettagli è davvero maestosa e continua a colpirmi la scena in cui il cammino di Ashitaka è contrappuntato da una pioggia passeggera, con gli steli dell’erba mossi dal vento e  poi bagnati dalle gocce, mentre la bruma si addensa e scivola tra i monti. Un’ultima nota la dedico alla maestosa partitura musicale di Hisaishi Joe e in particolare alla canzone del tema di chiusura Mononke Hime, dove ritorna il nodo centrale del film, l’amore di Ashitaka per San che va oltre la tristezza e la rabbia, e accetta la vita così com’è.


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