Dall’8 al 15 maggio scorsi, il film è uscito nelle sale italiane
e non ho certo perso l’occasione di vederlo. Spero che anche voi l’abbiate
fatto, ma se così non fosse spero non vi lascerete almeno scappare l’uscita in
home video.
Certo, tutti sanno che in Italia il film aveva già fatto il
suo debutto cinematografico nell’anno 2000, sulla scorta degli ottimi risultati
ottenuti in America, grazie alla Buena Vista International (divisione della
Walt Disney Company), allora detentrice dei diritti distributivi sul mercato nostrano.
Io stesso non feci in tempo a vederlo nei cinema ma presi in affitto il DVD non
appena possibile: lo ricordo come fosse oggi, il giorno del mio diciottesimo
compleanno. Quelle immagini mi sedussero in modo avvolgente e accattivante, era
il primo film dello Studio che vedevo, e fui rapito dal quel modo del tutto
diverso di concepire il disegno e l’animazione: la ricchezza dei dettagli, la
fluidità dei movimenti, il montaggio così espressivo e la meravigliosa colonna
sonora. Però, già in quelle prime visioni, e poi nelle successive quando
acquistai quel DVD oggi ormai introvabile, capii che nel racconto qualcosa non
tornava, che c’erano troppe contraddizioni. Erano gli albori del web, almeno
per me che avevo da poco ottenuto la lentissima connessione 56k. Così iniziati
a documentarmi e compresi che l’adattamento italiano aveva stravolto tutto.L’intera
trama, i ruoli e i passaggi fondamentali, ogni cosa era stata normalizzata,
appiattita, semplificata per un pubblico che si riteneva evidentemente incapace
di cogliere i riferimenti e le allusioni di un prodotto complesso e lontano
dalla nostra cultura. Ma non era solo questo: il finale in particolare era
stato modificato mettendo in bocca ai personaggi nuove battute, per renderlo quello
che non era e non doveva essere: un happy ending. Così nella versione italiana,
la frase di chiusura del film pronunciata dal bonzo Jiko recitava: “A quanto
pare la natura, stavolta, ha avuto la meglio”, quando in originale risultava,
parafrasando, “non si possono battere gli stupidi”. Le modifiche al finale sono
soltanto la punta dell’iceberg. Da quel momento ho preferito rivedere il film
con i sottotitoli del doppiaggio inglese (a cui ha lavorato anche lo scrittore
Neil Gaiman), certamente più aderenti all’originale.
La versione odierna è quanto di più fedele si sia potuto
ottenere. L’adattamento e la direzione del doppiaggio sono stati curati da
Gualtiero Cannarsi, già responsabile di quelli dei precedenti film dello Studio
(tra i quali Il castello errante di Howl,
I raccconti di Terramare, Il mio Vicino Totoro, Arrietty). Per la fortuna di noi
appassionati, Cannarsi concede sempre interviste sul proprio metodo di lavoro e
dialoga approfonditamente con i fan nel forum non ufficiale italiano dello
Studio. È sua tradizione anticipare i doppiaggi con dei post su quel forum che
sono dei veri e propri diari di lavorazione (qui trovate l’ultimo su Mononoke
Hime). Già a una prima lettura si nota l’attento, minuzioso lavoro di studio e
ricerca delle fonti, di penetrazione del testo e volontà di trasporlo per
quanto e più possibile nella nostra lingua. È una mediazione mirabile, che
permette a tutti di godere quasi trasparentemente il film, senza alcuna
alterazione se non quella, impossibile da evitare, dell’atto di tradimento che
è la traduzione stessa. Non
mi stanco mai di ripetere a tutti quanto noi fan italiani dobbiamo ritenerci
fortunati e privilegiati. In quale altre occasioni vi è capitato di poter
rivedere distribuito nelle sale un film comunque “di nicchia”, e per di più completamente
riadattato nel modo più fedele possibile all’originale?
Partendo da queste premesse, sono entrato nella sala buia e
ho visto Mononoke Hime per la prima
volta, con pupille non offuscate (come
recita una delle frasi chiave del film). Anche ora a mente fredda, ritengo sia
stata una delle esperienze cinematografiche più intense che abbia mai vissuto. Abituato
e assuefatto com'ero all'altra sciagurata edizione, tutto in quel momento aveva
il sapore di una rivelazione. Tutto combaciava, e quelle belle immagini prima
prive di senso adesso ne traboccavano, fin nei minimi particolari.
Di qui parte la mia recensione:
Ambientato nel Giappone di un’epoca Muromachi condita di
elementi fantasiosi, il film racconta le gesta dell’eroe Ashitaka, membro
dell’antica e leggendaria tribù degli Emishi, costretto ad abbandonare per
sempre il suo villaggio poiché macchiato dalla maledizione di un dio cinghiale,
trasformato in un demone. Ad aver scatenato la metamorfosi della creatura è una
pallottola di ferro proveniente da un luogo remoto. L’eroe intraprende quindi un
lungo viaggio per scoprire, senza pregiudizi, chi abbia costruito un’arma capace
di ferire e corrompere quella divinità e lui stesso, condannando entrambi a
morte certa. Ashitaka raggiunge un territorio sconvolto da un conflitto
insanabile: da un lato la comunità di donne della fornace, comandata dalla
ferrea madama Eboshi, insediatasi in una regione vergine per estrarvi il ferro
e fonderlo, costruendo utensili e armi; dall’altro le divinità e gli animali
della foresta, che lottano contro il disboscamento messo in atto per
l’estrazione del metallo, capeggiate dalla dea cane Moro e da sua figlia, San,
un’umana allevata dalle belve.
Un affresco di pungente modernità, che descrive il rapporto
sproporzionato dell’uomo con il resto dell’ecosistema, e che tuttavia sottolinea
la tragica e naturale necessità umana di esistere e vivere a spese di altra
vita. Eboshi e le sue donne fanno quanto ritengo necessario per sopravvivere in
un mondo di continue violenze e soprusi, ma la loro stessa presenza nella
foresta è a sua volta un sopruso per le creature che vi risiedono. Ho trovato
molto interessante il modo in cui Miyazaki visualizza la maledizione, il male,
facendola apparire come una malattia, una macchia della pelle che lentamente ma
inesorabilmente mangia l’intero corpo. Non è più soltanto il MarMarcio di Nausicaa
della Valle del vento: la corruzione è un fatto interno ed interiore, e fa
parte della vita. Non esiste un mondo immacolato come non può esistere un corpo
immacolato, e la stessa Eboshi lo sa bene: oltre alla donne ha preso a lavorare con sé i
peggiori reietti, i lebbrosi, cui nessuno osa avvicinarsi.
Ashitaka non può quindi giudicare né propendere per una
delle due parti. Egli guida lo spettatore in un mondo disperato e senza
soluzione, dove la guerra è inevitabile. Però, in mezzo al conflitto, trova una
ragione per continuare a lottare quando incontra la principessa spettro. Si
innamora di San dal primo istante in cui posa gli occhi su di lei. La ragazzina
vive in bilico tra due mondi: rifiuta la sua natura umana e abbraccia senza
esitare la sua famiglia di adozione, i cani selvatici. La sua madre putativa,
Moro, è accecata dall’odio per Eboshi, e come tutte le altre creature del bosco,
è pronta a morire trascinando sua figlia con sé. Questo, Ashitaka non può
accettarlo, sente che San ha bisogno di essere amata e protetta, e che non può
sprecare la sua vita in un insensato martirio.
La principessa spettro tuttavia rifiuta inizialmente il suo
amore, perché non lo comprende e non lo accetta. Lo trova sciocco e inutile, ma
poi infine capisce che è un dono gratuito per cui vale la pena vivere. “Vivi!”
le sussurra il ragazzo in una delle scene più drammatiche del film, vuole dirle
di non sprecare inutilmente la sua vita, di condividerla con lui. Questo è
l’unico valore possibile in un mondo sconquassato dalle guerre e dalle
contraddizioni. All’inizio l’eroe è convinto di poter trovare una mediazione
tra queste realtà in lotta, ma alla fine comprende come sia impossibile tentare
una conciliazione tra due forze uguali ed opposte. Il contrasto è talmente
acceso che dovrà perfino rinunciare all’amore per San, la quale non potrà mai
perdonare la propria specie, gli umani e vivere con loro. Ma ad Ashitaka starà
bene anche così, gli basterà sapere che San vive.
Le battute dei personaggi principali sono tutte di una
spaventosa incisività, Miyazaki mette in scene un vero e proprio dramma dei
tempi remoti, una tragedia shakespeariana. Non sono un profondo conoscitore del
cinema giapponese ma credo che il riferimento al bardo inglese sia legato a doppio filo ai film di Kurosawa Akira direttamente ispirati a quelle tragedie, come Il trono di sangue e Ran. Madama Eboshi, nei suoi modi
perentori e cinici, si rifà a Lady Macbeth. È un personaggio davvero
affascinante, una donna onorevole e risoluta, ma anche colma di odio e
solitudine, arroccata in un ruolo di comando che non le permette nessun vezzo o
debolezza. Moro è il suo contraltare ferino, ma si tratta di due matrone
davvero molto simili, che si guardano da opposte barricate. Il Dio Bestia,
principale protettore del bosco, credo rappresenti l’infinita danza di vita e
morte (giorno e notte; misericordia e crudeltà; dare e togliere), non è più il
poetico cervo che tutti credevano fosse, a causa del vecchio
"maltradattemento". E' la natura magnifica e pericolosa delle cose. È
la morte che ha bisogno della vita e la vita che ha bisogno della morte. C’è
poi l’opportunista Jiko, tutt’altro che un personaggio negativo. Anche lui ha i
propri scopi utilitaristici e non vede di buon grado gli ideali di Eboshi, così
come quelli di Ashitaka.
In questo complesso impianto teatrale Miyazaki non si nega grandi
scene di massa, esplosioni e serratissime sequenze di azione tecnicamente
formidabili. I riferimenti al suo Nausicaa
della Valle del vento sono pure moltissimi: l’arrivo iniziale del Dio
Cinghiale infuriato ricorda l’analoga prima sequenza con la corsa dell’Ohmu
rabbioso; quando poi Ashitaka viene a sua volta colto dall’ira e i suoi capelli
si sollevano, sembra di vedere la stessa Nausicaa scagliarsi contro i
soldati nemici; o ancora, quando Ashitaka si frappone tra le lame di Eboshi e
San pare di rivedere una simile scena in cui a farlo è Yupa; il gigantesco Dio
Bestia, nella sua versione notturna (chiamata Deidarabocchi) assomiglia invece
al Soldato Titano di Nausicaa; la stessa marcia finale degli Ohmu è speculare a
quella disperata dei cinghiali in Mononoke
Hime. I riferimenti sono davvero moltissimi, a riprova del legame profondo
tra questa e quella storia.
Vorrei ancora dire altro sul film. Circa la componente grafica ed
estetica, quest'opera è forse il picco massimo raggiunto dallo Studio in termini di attenzione per i particolari e numero di tavole/disegni. I fondali non sono
soltanto minuziosamente pittorici, ma in più occasioni talmente ampi da
permettere lunghissime carrellate orizzontali e verticali, davvero rare nel
cinema d’animazione. La profusione di dettagli è davvero maestosa e continua a
colpirmi la scena in cui il cammino di Ashitaka è contrappuntato da una pioggia
passeggera, con gli steli dell’erba mossi dal vento e poi bagnati dalle gocce, mentre la bruma si addensa e scivola tra i
monti. Un’ultima nota la dedico alla maestosa partitura musicale di Hisaishi
Joe e in particolare alla canzone del tema di chiusura Mononke Hime, dove ritorna il nodo centrale del film, l’amore di
Ashitaka per San che va oltre la tristezza e la rabbia, e accetta la vita così
com’è.
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